La relazione di Maria Paola Costantini : “LA CHIMERA DELLA TUTELA DEI DIRITTI DELLA PERSONA: L’OCCASIONE MANCATA DI UNA INTEGRAZIONE SISTEMICA TRA CONCILIAZIONE E GIUSTIZIA ORDINARIA”

  PREMESSA Perché un titolo che può apparire ridondante, eccessivo e retorico?  

 Perché parlare di tutela dei diritti e di giustizia ordinaria come una occasione mancata? Perché una visione così pessimistica della realtà quando si susseguono riforme del processo civile e penale, si introducono strumenti di conciliazione in numerosi settori o si istituiscono garanti e authority in tanti ambiti della vita civile; quando sicuramente esiste una maggiore rilevanza della tutela consumeristica e dei diritti ad essa connessa. Non si rischia di svalutare i tentativi di rinnovamento in atto?

 Perché parlare ancora di diritti della persona, laddove è preferibile usare termini come quelli di diritti del cittadino o del consumatore o ancora di interesse e soddisfazione del cliente o dell’utente? Non si tratta di un approccio obsoleto o semplicistico?

 La ricerca di un sistema organico di strumenti di tutela non si risolve in una  pretesa eccessivamente elevata, quasi presuntuosa, da “pensiero forte”, da volontà di inquadramento “totalizzante” di una realtà complessa e multiforme, difficile da schematizzare?

 In verità, si tratta solo di un richiamo forte finalizzato a che finalmente si avverta la necessità di una analisi approfondita e seriamente condivisa circa una “materia” che troppe volte è stata vista come di settore o per soggetti specializzati e professionisti. Un settore che anche in Cittadinanzattiva ha visto molta latitanza o eccessiva settorializzazione e segmentazione. Senza giustizia non c’è sviluppo democratico e senza effettività dei diritti ed efficacia degli strumenti per tutelarli, l’approvazione di leggi o regolamenti, ma la stessa attività di interlocuzione e più in generale l’attività politica può diventare irrilevante. Se il sistema di tutela non funziona, è costoso, lento o farraginoso, si apre un fronte di discriminazione sociale pericoloso e foriero di rischi per lo sviluppo della comunità. Come è evidente nel nostro Paese e non solo nel Sud d’Italia.

In realtà quello che è in gioco è la legalità che si coniuga e si deve coniugare con la tutela dei diritti fondamentali, con i diritti quotidiani. Ed allora diventa evidente come tutela dei diritti, giustizia e conciliazione non sono per gli addetti ai lavori. Costituiscono, al contrario, il cuore di una società democratica, pluralista ed efficace nel proteggere i suoi componenti e quelli che lo saranno. Troppe volte invece si è preferito trattare e pensare al rafforzamento della giustizia solo in termini strettamente legali o legalistici – badate, non giuridici che è ben altro, considerato che il diritto e i diritti sono strutture fondamentali in ogni comunità umana – .

Ma quando gli strumenti per tutelare un diritto si affievoliscono, quando affrontare una causa significa investire in tempo e in denaro non sempre a disposizione, quando c’è un soggetto debole che ha necessità di qualcosa ma tutte le strade sono chiuse perché le leggi non lo consentono, quando queste situazioni non sono sporadiche ma generalizzate, non può continuare la disattenzione. In quel momento è necessario intervenire e non su un piano individualistico ma collettivo e collegiale, con la sapienza e  la pazienza di iniziare a costruire un sistema in cui la giustizia serve per i diritti e non viceversa.

 Per tale motivo, ritengo che ci sia bisogno che ci si “fermi un attimo a guardare” quanto sta avvenendo, al di là degli impegni contingenti e del dispiegarsi veloce degli eventi, avendo una memoria storica e una visione ampia della società e del futuro, che ci appartiene solo parzialmente. E poi, ci si fermi – anche se sembra un paradosso –  a costruire.

 

Con molta umiltà e consapevolezza dei limiti, cercherò di fornire alcuni elementi che possano aiutarci a guardare avanti.

Lo ritengo doveroso, considerando che questa riflessione avviene all’interno di un movimento di cittadini (movimento e non associazione – se non in termini strettamente legali).

Lo ritengo vantaggioso e quasi una occasione imperdibile, atteso che un movimento di cittadinanza che si interroga su quanto accade e soprattutto può accadere, può costituire la migliore palestra e il migliore soggetto per condurre una analisi più generale. E ciò anche per il fatto che si tratta di una organizzazione con una storia trentennale, nata in  una stagione, certamente diversa da quella attuale, dove la mobilitazione dei cittadini (la cd partecipazione) aveva avuto un ruolo fondamentale e aveva convogliato le istanze della cd democrazia diretta in un contesto e in un quadro istituzionale e costituzionale con un occhio alla tenuta del sistema democratico, all’effettività dei diritti e alla governabilità. Una organizzazione che ha posto al suo centro i diritti delle persone e quindi anche dei cittadini legandoli indissolubilmente allo sviluppo democratico cercando sempre, nella tutela anche quotidiana, di verificare gli spazi di un avanzamento e di una promozione sia sul piano individuale che su quello collettivo.

 

 

La tutela della persona ?

 

Perché persona e non cittadino: possono esserci diverse ragioni. Innanzitutto, la nostra Costituzione usa questo termine come omnicomprensivo, multilivello, pur ponendolo insieme a quello di cittadino. Persona è un modo “pieno” per leggere l’essere umano, per prospettare una tutela ampia, senza possibilità di riduzionismi, di esclusioni, di restrizioni. Se per Cittadinanzattiva è sempre stato centrale il termine cittadino, dietro è sempre stata sottesa, senza ombra di dubbio, una visione inglobante e non selettiva e soprattutto non giuridica del termine. Oggi, al contrario il termine cittadino è usato per distinguere tra chi può pretendere riconoscimento e chi non lo può fare perché è migrante, perché è senza denaro, perché è estraneo e non ha una cultura di appartenenza o una identità precisa. In questi ultimi mesi, si è posto sempre più in risalto il diritto del cittadino ad avere la propria sicurezza a scapito di chi è fuggito dalla insicurezza per cercarne una; di chi ha diritto a una casa o a un lavoro o ad avere una famiglia in quanto possessore di una carta di identità contro chi invece non la ha, né può pretenderla perché deve prima dimostrare di essere “buono”, condiscendente e subalterno (stiamo tornando al “buon selvaggio” o alla “capanna dello zio Tom”: il nero accettato è quello che non protesta e non si lamenta). La legge sull’immigrazione riguarda anche noi per le conseguenze sul piano giuridico: il diverso non ha diritto ai diritti.

 

E ancora di più, il cittadino ormai è quello che in una visione individualistica e settaria può permettersi di contestare sistemi solidaristici e pubblici come la scuola, la sanità, la giustizia ed escludere l’accesso di  tali servizi agli altri: perché è meglio che ognuno pensi a come sistemarsi, a come organizzarsi. Si sta tornando surrettiziamente a una democrazia e a una società per censo. Oltre che identitaria. La stessa Corte di Cassazione negli ultimi anni ha sancito il principio dei confini ai diritti, confini dettati dalle necessità economiche e di bilancio dello stato. Le Aziende sanitarie obbligate al pareggio di bilancio, chiudono e riducono servizi o rifiutano assistenza su motivazioni economiciste. E in questa situazione con una giustizia ordinaria costosa e inefficace, non sembrano esserci soluzioni. Forse anche noi alcune volte rischiamo di essere complici perché magari tuteliamo una persona intervenendo direttamente ma non solleviamo mai in maniera forte e dirompente il problema.

 

Allora, porre l’accento sulla persona forse può aiutare a riflettere sul modello di sviluppo sociale e civile e sul destino delle società contemporanee. La priorità sulla persona può consentire di individuare i diritti insopprimibili, al di là della posizione sociale o di appartenenza; comprendere quale debba essere il ruolo delle istituzioni e quale il ruolo della collettività nel salvaguardare e promuovere tali diritti; può consentire di riconoscere la violazione soprattutto quando ha prodotto dolore e sofferenza, terrore e paura; a non monetizzare sempre e comunque il dolore e la sofferenza; a non disconoscere le situazioni in cui non segue un danno permanente negando di fatto tutela a situazioni che producono solo danno morale (anche questo oggi messo in discussione dalla Corte di Cassazione), troppo piccolo per alcuni per scomodare l’ordinamento giuridico o spendere soldi pubblici per un processo; può aiutare a pensare sistemi di tutela che operino sul versante del ripristino del diritto, del suo riconoscimento, della possibilità di impedire il ripresentarsi della violazione; a creare organismi di tutela trasparenti e che non cercano di nascondere la violazione e soprattutto non diventino percorsi a ostacoli, defatiganti anche quando appaiono a prima vista semplici; che non mettano paletti alle situazioni da tutelare; che non producano ulteriore burocrazia e lungaggini, dove la persona possa finalmente dire “mi hanno ascoltato”.

 

C’è una frase tratta dal profeta Isaia che dice: Dio ha ascoltato il dolore del suo popolo”. Ebbene ritengo che oggi per noi sia importante ascoltare e dare risposta – per quanto ci compete – ma soprattutto riconoscere che le grida di dolore si stanno moltiplicando e richiedono un impegno più forte e forse più intelligente.

 

 

Il sistema di tutela dei diritti è ormai un puzzle scomposto tra crisi della giurisdizione pubblica e mancata organicità tra le procedure di conciliazione

 

Quando si tratta di capire il livello di tutela dei diritti in Italia è bene armarsi di tanta pazienza e cercare di entrare in una realtà complessa e articolata che vorrebbe costituire un sistema organico ma che purtroppo è ormai come un puzzle composto da tanti pezzi – alcuni anche belli e intelligenti o creativi – che purtroppo non combaciano fra loro.

L’attuale situazione della tutela dei diritti della persona con riguardo a famiglia, sanità, istruzione, lavoro, ambiente e territorio, trasporti, ma anche diritti legati all’ambito economico individuale (banche, assicurazioni, telefonia, elettricità ecc.) è caratterizzata infatti da una enorme frammentazione che gioca su più livelli.

La cd giustizia ordinaria: da ormai 20 anni si susseguono riforme continue: prima con l’introduzione del giudice di pace il quale doveva servire a “smaltire” gli arretrati del Tribunale, e doveva rappresentare la cd giustizia di vicinanza con il cittadino. Poi con l’introduzione di sistemi obbligatori di conciliazione nell’ambito del lavoro, serviti solo a far desistere il lavoratore o ad allungare i tempi. Infine, con la riduzione del ruolo del giudice affidando alle parti in gioco addirittura l’istruttoria processuale cosicchè i testimoni vengono sentiti solo dai rispettivi avvocati e mai dal giudice che può solo leggere le carte processuali; la parte non è più ascoltata e non potrà mai vedere il giudice e rappresentare quello che è accaduto; e in più chi soccombe una causa civile può ritrovarsi a pagare anche una “multa” per aver avviato l’azione giudiziaria. Sono stati introdotti anche momenti di conciliazione ma senza sapere quando, come e con quali soggetti. In ambiti delicati come la salute, la famiglia, la protezione dei minori ciò vuol dire una riduzione di tutela, enorme. E ultimo, ma non meno importante problema: i costi e i tempi. I primi sempre più elevati: il riferimento è ai consulenti. I secondi sempre più lunghi perché sono state ridotte le risorse finanziarie; non è stato rimpiazzato il personale amministrativo; il numero dei giudici è sempre lo stesso. Per non parlare del giudizio di appello e di Cassazione. Per non parlare del fatto che il Tribunale dei minori è uno per ogni regione e che per avere un provvedimento a favore di un figlio di una famiglia di fatto possono passare mesi e mesi.

Nel  puzzle della tutela dei diritti un ruolo sempre più determinante sta assumendo la conciliazione, la mediazione e l’arbitrato sia in settori dove sono in gioco diritti fondamentali e insopprimibili (la famiglia o la sanità) sia per situazioni cosiddette bagatellari le quali tuttavia hanno sempre un contenuto legato ai diritti costituzionali. Perché poter pagare il giusto prezzo per un servizio è parte integrante della personalità e non è qualcosa a latere o minimale.

In questo ambito tutto diventa più  complicato per una serie di ragioni. Una prima ragione è di carattere storico. La conciliazione nel nostro paese ha una storia antica ma circoscritta alla vecchia figura del conciliatore e a qualche sporadica esperienza posta in atto anche da associazioni come la nostra (le commissioni conciliative nelle ASL negli anni 80). Solo con la normativa europea nell’ambito dei consumatori sono state introdotte procedure conciliative. Qualche esperienza interessante è stata portata avanti in merito alla mediazione penale in quartieri a disagio e nell’ambito del diritto di famiglia per la protezione dei minori. Ma alla cultura italiana la conciliazione intesa come modalità di trovare un punto di accordo e non distruggere i legami sociali, famigliari ecc. è ancora estranea. Le procedure previste nell’ambito dei consumatori non sono conciliazione ma si risolvono sempre e solo in una transazione. Le procedure previste dal codice di procedura civile mantengono questa impostazione insieme a un favore nei confronti dell’istituto dell’arbitrato. Che cosa comporta? I costi non scendono (si parla di pagamento del conciliatore, dell’arbitro e del mediatore in base al valore della controversia); i tempi rimangono lunghi e se la controparte del cittadini è una grande azienda lo squilibrio rimane forte. Sono gli stessi conciliatori a non esercitare il loro ruolo e a volte si fermano al minimo ostacolo.  In assenza di una cultura della soluzione e del riconoscimento del diritto, le persone preferiscono avviare una azione legale. Almeno, forse, c’è più trasparenza e un po’ di più di certezza del diritto.

 

Una seconda ragione che produce la confusione del puzzle è la possibilità sul piano regionale, di sperimentare e creare istituti di tutela conciliativa. Ogni regione ha legiferato, attuato e sperimentato diversi strumenti. E’ il caso per la sanità della Toscana, dell’Emilia Romagna e della Lombardia che hanno una pluralità di organismi, figure e strutture, non sempre coordinate fra loro. Solo la Toscana per l’ambito sanitario, ha il difensore civico, l’ufficio per le relazioni con il pubblico,  le commissioni miste conciliative, il servizio di conciliazione di alcuni ospedali e di conciliazione delle azienda Usl, servizi regionali di conciliazione e arbitrato; servizi che riguarda solo alcune situazioni  e servizi in cui è possibile accedere solo laddove si è in presenza di danni, servizi per la transazione e l’arbitrato per i danni sanitari sopra i 50.000 euro e non oltre. Tutti questi  organismi, al di là dei nomi, hanno funzioni di tutela e anche di conciliazione o di mediazione. Essi spesso si sovrappongono o paradossalmente non riescono a produrre tutela a numerose situazioni poiché manca una visione complessiva e soprattutto concreta delle situazioni da tutelare. Un esempio quasi eclatante concerne il servizio di conciliazione dell’Azienda Ospedlaiero Universitaria  Careggi a Firenze, appena istituito in cui la tipologia di casi è talmente ridotta che l’unica soluzione è quella di avviare un’azione stragiudiziale di risarcimento del danno e in questo modo riuscire a entrare in contatto con un altro servizio dello stesso nosocomio che procede a una transazione. Ma come si può facilmente notare: la conciliazione dove è? Forse il termine da noi si traduce solo in transazione.

 

Una terza ragione che riguarda sempre la difficoltà del puzzle della tutela dei diritti a funzionare concerne la divisione in materie. Sul piano dei diversi ambiti e quindi salute o istruzione o consumerismo, ci si accorge della moltiplicazione dei soggetti coinvolti, delle procedure e delle strutture che si raddoppiano, con un rischio di confusione, inefficacia, di collasso addirittura tra i diversi tipi di conciliazione. Anche qui, alcuni riferimenti: conciliazione sanitaria effettuata dalle ASL, conciliazione della camera di commercio, dell’Ordine degli avvocati o dell’Ordine dei medici, conciliazione paritaria, camera di conciliazione, servizi di conciliazione delle associazioni e di centri privati, conciliazione dei Comuni, senza parlare di strutture come il Corecom per le telecomunicazioni; l’intervento del difensore civico, del giudice di pace, delle authority e del Tribunale ordinario in sede si conciliazione. Ma lo stato inteso come collettività pubblica che si assume il dovere di difendere i propri componenti dov’è. Non si tratta di essere statalisti ma di valutare il significato reale e concreto di lasciare la giustizia e la tutela dei diritti a singoli e a privati con rischio di perdita di peso del diritto, della legalità e della tutela del più debole.

 

Il vero nodo: conciliare sì, ma perché e quando? Dove è il luogo del riconoscimento del diritto? Dove è il luogo dove si ricostruisce il legame sociale che è venuto a rompersi? Dove è il luogo del ripristino del diritto violato?

 

L’ultima riforma del codice di procedura civile considera la conciliazione come elemento positivo e da potenziare. Ma non dice come, con quali risorse, con quali figure professionali e soprattutto non specifica quali situazioni hanno necessità di conciliazione, ponendo tutto in un calderone: dalla lite condominiale a situazioni in cui sono diritti fondamentali ad essere messi in discussione.

 

– Se la conciliazione serve solo a ridurre il carico dei Tribunali, allora vuol dire aver perso la battaglia da subito. La finalità pur rispettabile di deflazionare il sistema non può essere raggiunta solo introducendo nuovi istituti che tra l’altro hanno finalità diverse. Senza un sistema giudiziario funzionante, la conciliazione può risolversi in un sopruso per i più deboli i quali sono costretti ad accettare qualsiasi proposta poiché non sussistono alternative. Senza il sistema di tutela dei diritti fondamentali che prevede anche l’accesso alla Corte costituzionale per fare eliminare una legge ingiusta, il rischio è di essere in balia delle maggioranze di governo o di un Parlamento sordo alle istanze sociali e civili (es. fecondazione assistita, testamento biologico, diritti degli immigrati, diritti degli omosessuali e delle coppie di fatto)

 

– Se l’informazione diretta ai cittadini e alle persone, specie alle cd fasce deboli, sulle forme di conciliazione, sulle finalità e le possibilità di attivazione, con una facilitazione delle modalità di accesso non diventa una delle priorità la conciliazione è destinata a fallire. Il sistema attuale è a volte farraginoso, complesso e diretto a una fascia alta di popolazione che ha tempo, denaro, cultura. Il ruolo delle associazioni non sempre è trasparente: molte volte l’informazione a queste possibilità si paga e ciò produce una selezione sociale molto forte.

 

– Se  la conciliazione è finalizzata a un accordo transattivo si rischia che si risolva in rinuncia o in una riduzione di una pretesa “sacrosanta” e quindi in giustizia negata. Quante volte le cosiddette conciliazioni paritarie o le conciliazioni con le aziende davanti al Corecom si sono concluse in questo modo, in assenza di un ruolo forte del conciliatore.

 

– Se la conciliazione non consiste anche in una fase di riconoscimento del diritto sancito da leggi o riconosciuto dalla Costituzione e quindi del diritto di una delle parti a vedere riconosciuta la presenza della violazione, che soddisfazione effettiva alla domanda di giustizia? Anche qui è solo un accordo tra le parti ma niente che possa “rimanere” nella coscienza dei due soggetti. In tutte le ricerche che sono state effettuate negli anni, la questione del riconoscimento è stata rilevata come fondamentale da parte dei cittadini. Nelle procedure e negli istituti costruiti non esiste ne è mai stata presa in considerazione.

 

– Se sussiste uno sbilanciamento tra i soggetti che partecipano alla conciliazione la conseguenza può essere solo una: il più debole perde e perde su tutta la linea e non solo parzialmente.

 

– Se la conciliazione è legata alla monetizzazione o al massimo allo scambio (es. banale, la valigia al posto della vacanza rovinata), una parte della violazione subita non trova ristoro. Si tratta di tutte le situazioni in cui si produce sofferenza, angoscia, disagio, ecc.

 

– Se la conciliazione non prevede un incontro tra le parti con un mediatore o conciliazione vero e proprio con pieni poteri e facoltà e con capacità di far comprendere i diritti e gli interessi in gioco e rintracciare le opzioni possibili, a che cosa serve? A un mero accordo? E allora perché è necessario pagare il conciliatore?

 

– Se la conciliazione viene utilizzata perché non si sappia che un azienda o una impresa ha comportamenti continui di violazione e sussiste sempre la clausola della segretezza sia in ordine all’esito che al comportamento delle parti, si configura solo una tutela individuale e anche minimalista. Senza alcun apporto al sistema generale di diritti e di obblighi per l’una e l’altra parte. La segretezza dovrebbe essere solo parziale o solo in alcuni casi. E comunque non quando le violazioni sono centinaia e si ripetono. Ciò impedisce un azione collettiva per il cambiamento di normativa o di comportamenti illegittimi. E non si trasforma mai in una delle modalità di avanzamento del diritto. Al contrario, potrebbe essere intesa anche come esperienza pilota per il cambiamento della normativa, ovviamente salvaguardando la privacy.

 

Se i tratti delineati fossero posti al centro della riflessione in maniera organica e soprattutto con una forte relazione al sistema dei diritti fondamentali probabilmente ne uscirebbe un sistema più efficace ed efficiente.

 

 

 

Dimensione individuale e solitaria della esperienza di tutela dei diritti

 

Se, invece di considerare solo gli istituti, le norme e le  procedure che via via sono stati costruiti in questi ultimi due decenni, il punto partenza diventa quello della esperienza quotidiana, del vivere comune di ogni persona che ha necessità di sollevare una questione, di tutelare un proprio diritto, si avverte anche un ulteriore fatto che dovrebbe essere considerato come indicativo: il puzzle di tutela non abbraccia mai una dimensione collettiva ma solamente individuale. Tutti i tentativi di tutela collettiva sono naufragati (è il caso delle azioni inibitorie, poco utilizzate, e della cd class action che si è trasformata in farsa) e serve conoscenza e una discreta cultura anche giuridica oltre che energia e tempo per poter procedere. Anche se la cosa è per così dire bagatellare. Se è vero che il cittadino nell’affrontare la propria situazione avvia un processo di empowerment personale e tale atto ha certo un valore positivo, non bisogna dimenticare, tuttavia che le modalità previste, privilegiano sempre una dimensione individuale e quindi assolutamente solitaria in cui il soggetto deve districarsi fra  organi, figure e strutture, andando di volta in volta come allo sbaraglio, tra tentativi ed errori fino al momento in cui trova la soluzione o sfiduciato abbandona il campo. E chi non ce la fa? Rinuncia!

 

Per capire quello che accade e trovare rimedio, probabilmente dovrebbe essere effettuata un’altra operazione: abbandonare in senso metaforico l’elenco degli strumenti esistenti – pur utile e prezioso – e verificare al contrario se di fronte a situazioni tipo una persona concreta abbia chance di successo ossia possa vedere il riconoscimento di un suo diritto.

 

Ciò consente, come quando si usa una lente di ingrandimento o un microscopio, di scoprire cose invisibili e sorprendenti. Cittadinanzattiva è questo osservatorio per le caratteristiche stesse del suo essere e per il fatto di coniugare sempre tutela individuale e tutela collettiva; azione di difesa e azione di promozione di diritti; interlocuzione e utilizzazione dei sistemi di giustizia per scardinare situazioni intollerabili.

Tuttavia Cittadinanzattiva dovrebbe operare un salto di qualità, ovverossia evitare di parcellizzare e di segmentare la propria attività cercando almeno sulla tutela dei diritti di avere una visione globale. In questo modo sarà possibile un contributo per costruire un sistema intelligente ed efficace.